LA PROCESSIONE DEL VENERDI SANTO
A cura di Antonella Catenazzo
Le vacanze di Pasqua sono finite e adesso, con buona pace, bisogna tornare alla vita di prima, a digerire agnelli e colombe. Dopotutto, in barba alla crisi, se è festa che si festeggi.
Magari con moderazione. Arrivati ad un epoca in cui, per qualsiasi festa, prevale l’aspetto consumistico su quello originario, chi sa se qualcuno ancora identifica ancora
La tradizione dei riti ci viene in soccorso, con ulivi che simboleggiano palme, canti di flagellazione e mattinate di sole illuminate da un festoso concerto di campane.
È iniziata e finita questa settimana Santa ed io, per dovere di cronaca, l’ho osservata passare coi suoi riti annualmente puntuale. Ed uno di essi, come ogni anno mi ha colpito.
La storia di Cristo durante la settimana Santa è come un film hollywoodiano: ha il lieto fine, nella resurrezione della mattina di Pasqua. È il momento in cui si tira il fiato e si dimenticano i momenti d’angoscia. Ma io ho sempre trovato l’happy ending una parte noiosa e banale dei film e il rito che da sempre più mi affascina della Pasqua è la processione del Venerdì Santo.
Quest’anno, sempre per dovere di cronaca, dopo molti anni di latitanza, ci sono andata di nuovo; tenendo per mano il ricordo di quando, bambina, ci andavo accompagnata dalla nonna.
Dopo tanti anni, ancora tutto rimane come lo ricordavo.
Durante la processione ho portato come al solito con me il blocchetto per gli appunti, ma quando ho potuto finalmente mettermi al computer ho deciso di lasciarlo da parte e di affidarmi al ricordo.
Ed io ricordo l’ingresso della Chiesa Madre affollato di gente, la processione che pian piano prende forma, con in testa le statue di Gesù Morto e della Madonna addolorata.
Sono statue tragiche, angoscianti: Gesù disteso, coperto da un velo bianco, il corpo martoriato di ferite che sgorgano sangue; Maria vestita di nero, nero il velo che ha in testa, il viso distorto dal dolore.
I portatori si caricano in spalla le statue e, preceduti da una croce di legno nero, si avviano lungo il percorso.
Ed è un percorso difficile, a tratti impervio, perché in alcuni punti, ad esempio nel centro storico, le vie sono strette e scoscese, e il peso sulle spalle è grande. Spesso la processione si ferma perché i portatori possano darsi il cambio.
È un percorso lungo e faticoso perché Deliceto è praticamente un paese di montagna e, anche se non è molto esteso, è un continuo susseguirsi di discese e salite.
Ma la processione avanza, dolorosa, intonando “Sono stati i miei peccati, Gesù mio, perdon, pietà…”
Avanza nell’aria mite del tramonto, si snoda per tutto il paese, fremente come una creatura viva. E forse c’è chi ci è andato solo per usanza, o solo per farsi vedere, ma l’atmosfera è autentica e dopo un po’ che si cammina prende un po’ tutti.
Anche me che sono qui in mezzo e mi guardo intorno. E vedo le facce delle vecchiette che i canti li sanno a memoria e non intonano solo il ritornello, delle signore che procedono al braccio dei mariti, dei bambini tenuti per mano da mamme e nonne che puntano il ditino verso la statua di Maria chiedendo con candore infantile: “Perché piange?”
Seguo la creatura vivente che avanza, continuando a cantare, finchè il cielo diventa scuro e la creatura si infrange sulla porta della Chiesa da dove è partita.
Mi guardo intorno. E ci sono di nuovo solo uomini e donne.