IPOTESI SULLA COMMITTENZA DELL’ORGANO…

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Un contributo per l’organo della chiesa di S. AntonioL’ipotesi sulla committenza stemma.jpg Mattia Iossa DELICETO – Si è respirata aria pulita nella Sala Europa, il 2 gennaio 2010, la sera della presentazione del progetto per il restauro dell’organo della chiesa di S. Antonio; una serata di buon auspicio per l’anno appena iniziato. L’uditorio ha seguito interessato le parole dei relatori, con la voglia di sapere. Aria fresca si è aggiunta con l’intervento del Dirigente Emerito Raffaele Ieffa, che da par suo, in uno scenario di cime di monti, ruscelli e prati, ha unito mitologia e natura, il dio Pan e la ninfa Siringa per illustrarci la romantica origine di quel primitivo strumento di canne e di aria, progenitore dei nostri organi. E poi si è tornati al concreto con gli interventi di Paolo Pacella, sulle caratteristiche dell’organo da restaurare, e del priore di S. Antonio, Tonino Di Taranto, che ha illustrato la parte economica del progetto. Una bella serata, con un uditorio attento e contento per il nostro gioiellino; un piccolo ma prezioso organo del 1775, di Domenico Antonio Rossi, lo stesso che fabbricava organi niente di meno che per Sua Maestà. Lo tenevamo qui a Deliceto e non lo sapevamo; i nostri storici non lo hanno mai menzionato, non se ne erano accorti. Ci sono voluti l’attenzione e l’amore di qualche postero per scoprirlo. Ora dovrà essere restaurato. Il progetto è partito, la raccolta fondi pure; ce ne vorranno un bel po’, ma per il bene del paese, e se si è certi che seguiranno la via giusta, il popolo risponderà, come ha fatto in passato; non deluderà l’impegno di quei privati cittadini che, senza averne obbligo, si assumono briga e fastidi, spendendo energie e tempo. La serietà delle persone del comitato è garanzia della rettitudine della gestione dei fondi.  Poi ha incuriosito una domanda che i relatori si sono posti: come mai uno strumento musicale così prezioso è finito a Deliceto, in una chiesa che non è certo la più importante? Forse una colletta fatta dalla popolazione nel 1775, che magari si “è tolta il pane di bocca”? Oppure l’hanno portato i Redentoristi, nel periodo in cui il convento di S. Antonio è dipeso dalla Consolazione? Sono solo supposizioni, dal momento che molte testimonianze del passato sono andate distrutte, e purtroppo l’opera di distruzione continua ancora disinvoltamente. Mi hanno sollecitato a spendere qualche parola sull’argomento, se non altro per tener vivo l’interesse, e ben volentieri do il mio contributo.Per una spiegazione attendibile, bisogna soffermarsi a pensare al luogo dove è collocato l’organo, e che cosa questa chiesa ha rappresentato in passato. S. Antonio nasce come convento dei Minori Osservanti, un ordine francescano, diremmo scissionista rispetto agli altri francescani, i conventuali, accusati di indulgere alla comodità della vita di convento e di tradire il vero spirito di S. Francesco. I Minori Osservanti, che edificavano i loro conventi fuori dell’abitato, ebbero una larga espansione fra la seconda metà del 1400 e per tutto il 1500; poi, col tempo, acquistarono un certo carattere “feudale”, che implicò l’intervento dell’aristocrazia nell’ambito delle fondazioni monastiche1. Una specie di sodalizio con la nobiltà, risoltosi spesso in una specie di protettorato, di cui restano ancora segni tangibili. E la chiesa di S. Antonio è piena dei segni delle tre famiglie marchesali che si sono succedute a Deliceto: i Piccolomini, i Bartirotti, i Miroballo. Già per il primo convento, nel 1510, fu Giambattista Piccolomini a mettere a disposizione un suo terreno2; quando poi il convento si dovette abbandonare perché stava andando in malora, fu il successivo feudatario dell’epoca, Cesare Miroballo, a concedere un suo terreno poco distante, ed a contribuire al finanziamento del nuovo convento3. Il carattere gentilizio è stato conservato nel corso dei secoli: S. Antonio è stata la chiesa per eccellenza dei marchesi e delle famiglie collegate; e poi delle famiglie della buona borghesia, ancora fino a qualche decennio fa. Del resto anche a Bracigliano, l’altro loro feudo, i Miroballo avevano un rapporto preferenziale con il convento di S. Francesco, nella cui chiesa sono ancora conservati molti emblemi della famiglia4. Nella nostra chiesa di S. Antonio, i Miroballo avevano la loro tomba. Dai registri degli atti di morte della chiesa madre, sappiamo che vi vennero sepolti nel 1631 Alessandro Miroballo, e poi Francesca Bartirotti nel 1632 e prima, il 12-11-1629, era stato sepolto un suo figlioletto. Anche un Rinaldo Miroballo, cavallerizzo maggiore del re di Spagna, a Deliceto per una battuta di caccia e quivi morto nel castello, venne sepolto nella chiesa nel 1675. Vi avevano ancora la tomba gentilizia i Rusca, e vi trovò riposo nel 1649 Anna Miroballo, che un Rusca aveva sposato. Anche un Antonio Piccolomini fu sepolto nella chiesa di S. Antonio il 9 dicembre 16315. E fu in quella chiesa che, una volta completata, Giuseppe Alessandro Miroballo ordinò il trasporto del corpo di Giovanna Piccolomini d’Aragona, sua ava per lato paterno6. Ma il segno più evidente della forte presenza nobiliare è la ricchezza dei marmi e della decorazione, che un ordine mendicante francescano non poteva certo permettersi; stemmi in rilievo, statue, quadri, tutti di valore; e in particolare lo splendido altare maggiore di marmi intarsiati, che porta impresso ai lati, quasi un marchio di appartenenza, due stemmi gentilizi uguali, partiti, sormontati dalla corona marchesale. Al centro, in cuore, vi è l’arma dei D’Aragona, e per il resto quello dei Miroballo a sinistra (il leone e la palma) e dei Filomarino a destra (tre sbarre in un campo seminato di gigli), stemmi paterno e materno di Giuseppe Alessandro Miroballo, 4° marchese di Bracigliano, 11° di Deliceto e 3° principe di Castellaneta, morto nel 1669; apposti, appare logico, quando fu costruito l’altare e la chiesa venne aperta. Questa è sicuramente l’identificazione degli stemmi, anche se gli storici locali hanno avuto in passato difficoltà ad interpretarli, specie quello dei Filomarino7. Fu Giuseppe Alessandro a donare il terreno; fu lui a finanziare la costruzione; fu lui a spendere di tasca sua almeno 600 ducati per l’altare8, ed è lui a proclamarlo con questi stemmi. Ed allora la risposta alla domanda è ovvia: a portare il prezioso organo da Napoli a Deliceto, a pagarlo, non possono esser stati che i marchesi, a maggior decoro della loro ricca chiesa, della loro cappella, delle loro tombe. Ed è facile anche individuare chi era il marchese che l’ha voluto: se l’organo è datato 1775, non può che essere il successore Nicolò Miroballo, nostro marchese dal 1768 al 1776, che si fece, e ci fece, questo regalo l’anno prima di morire. Questa spiegazione, che mi sembra la più logica, vuol essere un modesto contributo per la rinascita di quel gioiellino; contributo che non va certo a sostituire quello più concreto che il comitato da tutti noi si aspetta.  1 F. COLAPIETRA, Francescanesimo Quattro-cinquecentesco tra Aquila e Foggia: aspetti     sociali ed urbanistici negli insediamenti, p. 104.2  L. WADDING, Annales Minorum, XV, p. 504.3 G. BRACCA, Memorie storiche di Deliceto, Tip. Colcerasa, Macerata, 1903, p.235.4 T. GIORDANO, Storia di Bracigliano, Di Mauro, Cava de’ Tirreni, p.103.5 Archivio Chiesa Madre, registro dei Morti, ad anno.6 DI TARANTO, Deliceto. Storia civile e religiosa,Ed. del Rosone, Foggia, 1998, p.185.7 BRACCA, cit. p.303, fa una descrizione confusa; A. JOSSA,Deliceto, notizie storiche, S. Agata di P. 1972, pp. 303-304, vi vedrebbe lo stemma dei Bartirotti. Lo stemma dei Filomarino è riportato da S. MANZELLA, Descrittione del Regno di Napoli, ecc., Cappello, Napoli, 1601, p.629-630.8 T.NARDELLA,La Capitanata in una relazione per visita canonica di fine Seicento, in “Rassegna di Studi Dauni”, Gen-Giu 1976, p.96.

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